domenica 18 novembre 2012

Bombe e bugie contro Israele!


Pallywood, la fabbrica delle foto bugiarde costruite contro Israele

Una lunga lista di immagini truccate dai palestinesi per favorire la loro causa. L'ultima: un piccolo ferito davvero, ma in Siria



A volte si tratta di film in cinemascope e tre dimensioni, come la storia di Mohammed Al Dura, o quella di Jenin. A volte, è solo una bambina con la dermatite la cui penosa immagine viene diffusa e descritta («fonti palestinesi») spiegando che si tratta di una creatura colpita dal «fosforo bianco» che gli israeliani spargono sulle creature. Ma sempre Pallywood è.
Mettiamoci dunque comodi in prima fila: con questa guerra, Pallywood ha ricominciato il solito spettacolo. Con tutto il rispetto per i feriti e i morti veri, e dispiace non poco per il neonato perduto dal cameraman della BBC a Gaza, di nuovo è in corso una guerra parallela, non meno importante: quella delle bugie mediatiche con cui Pallywood (l'Hollywood palestinese) delegittima Israele e vittimizza la sua popolazione civile. Già la guerra in corso sui media internazionali è stata manipolata; la sua origine, nei titoli, è la gratuita decisione israeliana di eliminare Ahmad Jabari, capo militare di Hamas. Da qui poi sarebbe seguito il lancio di missili e l'escalation. Ma come sa chi ha seguito gli eventi, l'eliminazione mirata è avvenuta solo dopo che il sud d'Israele era diventato un tirassegno in cui la popolazione civile israeliana veniva bersagliata da Gaza. Contro ogni evidenza ora i palestinesi coadiuvati dalle solite Ong (finanziate da noi cittadini ignari, come dimostra un nuovissimo rapporto di Giovanni Quer, edito dalla Federazione delle Associazioni Italia-Israele) sostengono la tesi che è Israele ad attaccare i civili, e non Hamas.
Le foto manipolate sono il mezzo migliore: un Tablet Magazine di Adam Chandler, poi ripreso ovunque, ha mostrato un padre disperato con un bambino morto in braccio, e sarebbe accaduto sotto il fuoco israeliano. La foto è vera purtroppo, solo che si riferisce a un episodio accaduto in Siria. Un altro «documento» degli attacchi di Israele è apparso alla BBC: un signore con giacca beige e t-shirt fotografato alle 2,11 di tre giorni fa è morto. Peccato che ci sia un'altra foto delle 2,44 in cui lo stesso personaggio è ripreso mentre cammina. I morti che risorgono ebbero la loro sequenza più famosa filmata da un drone a Jenin nel 2002: la città madre di tanti attentati terroristi fu cinta d'assedio, alla fine ci furono 52 morti palestinesi e una quarantina di israeliani. Una battaglia in piena regola. Ma la propaganda palestinese sostenne che i morti erano stati un migliaio, una strage, disse Terje Larsen inviato dell'Onu «come a Srebrenica». La cronista che era sul posto non se la bevve, non era necessario credere solo alle «fonti palestinesi», basta cercarsene anche altre. Dopo la «strage», un funerale trasportava a braccia un morto su una lettiga, coperto da un drappo verde. Ma la lettiga oscillava troppo, così il morto fu costretto a saltare giù: un morto che cammina.
Pallywood è fantasioso, c'è «una bambina palestinese che lava il sangue del fratello» (2010, blog di Noam Abed) e invece è la pulizia di un mattatoio di Ramallah; c'è un padre che secondo un inviato all'Onu, Khullood Badawi, porta la sua bambina uccisa al cimitero, ma siamo in Iraq; c'è un bambina, Asil Ara'ra di 4 anni, deceduta per ferite d'arma da fuoco, ma è una terribile foto presa in Yemen, Israele non c'entra. Chi ha dato una gran mano a Pallywood è Hezbollywood: ricordiamo durante la guerra del Libano (2006) l'ambulanza con un buco nel tetto, ma non era un foro di proiettile bensì una finzione praticata ad arte; le foto di famiglia spostate da una parte all'altra di varie rovine fumanti, insieme ai giocattoli, sempre gli stessi. E il fumo nero di esplosioni a Beirut, tutte finte, per cui venne licenziato un fotografo della Reuters. Seguiteremo a scrivere «da fonte palestinese apprendiamo che...»
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mercoledì 14 novembre 2012

da donna a mamma...

Parto, come scegliere - Meglio il cesareo o un parto naturale? Quali sono le conseguenze di questa scelta? Su che basi è il caso di compierla? Qualche consiglio per le future mamme

Parto, come scegliere

Meglio il cesareo o un parto naturale? Quali sono le conseguenze di questa scelta? Su che basi è il caso di compierla? Qualche consiglio per le future mamme



Cesareo o parto naturale? Questo è il dilemma. Posto che quando si deve compiere una scelta del genere è sempre importante affidarsi al proprio ginecologo è più che normale che si abbia qualche dubbio soprattutto perché le voci di corridoio sono tra i primi nemici delle future mamme.

Proprio per questo abbiamo fatto un giro in rete cercando i pareri di alcuni ginecologi per aiutarvi a smentire qualche falsa credenza di troppo.

Se hai fatto un cesareo non puoi più partorire naturalmente.
 Questo è vero solo in parte perché se è pur vero che il parto naturale espone le donne pre-cesareizzate ad alcuni rischi, bisogna ammettere che questi hanno percentuali molto basse soprattutto se ci si affida a strutture specializzate.

Se decido per il parto naturale l’epidurale mi comporterà delle controindicazioni?
 Questo non dipende né dal tipo di gravidanza, né dallo stato di salute del bambino. Se c’è la prospettiva di un’epidurale a decidere è infatti solo la visita anestesiologica.

Se il bimbo è in posizione podalica devo per forza fare il parto cesareo. Questo, invece, è vero nel senso che se fino alla fine il nascituro romane in posizione podalica il cesareo è la soluzione più consigliata. Si può provare però a spostare il piccolo in vari modi con l’agopuntura o con varie tecniche come la moxa.

Se faccio un cesareo e mi somministrano antidolorifici poi non posso allattare. Questo non è vero: la somministrazione di antidolorifici dopo il cesareo è  solamente occasionale e avviene sotto controllo medico quindi genericamente non compromette l’allattamento.

Il cesareo mi lascia la pancetta. Non è vero: il taglio è praticato in modo da fornire un pieno ritorno alla condizione precedente. Una corretta alimentazione combinata all’attività fisica ti aiuteranno a tornare in forma

sabato 10 novembre 2012

Ecco perché l'Italia affonda... (e in Francia ridono di noi)


Ecco le follie burocratiche che ammazzano un'impresa

Oltre alla marea di tasse che attanagliano le piccole e medie imprese, a complicare il quadro c'è tutta una serie di adempimenti burocratici che ostacolano, rallentano e aumentano i costi per le aziende nostrane

Non stupitevi: non sono battute di cabaret, ma la pura e cruda realtà con la quale tutti i giorni sono costretti a fare i conti gli imprenditori italiani.
È la burocrazia, bellezza. Quel “gigantesco meccanismo azionato da pigmei", così descritto da Honoré de Balzac. Che, se avesse fatto i conti con quella italiana, probabilmente avrebbe reso più caustica la sua citazione.

CONTENOltre alla marea di tasse che attanagliano le piccole e medie imprese (nel 2011 il peso del fisco sulla busta paga era al 47,6%, superiore di 5,5 punti alla media dell'Eurozona), a complicare il quadro c'è tutta una serie di adempimenti burocratici che ostacolano, rallentano e aumentano i costi per le aziende nostrane.

Semplici documenti, alcuni richiesti solo nel nostro Paese. Nel settore dell'import-export, i moduli da compilare possono arrivare fino a 68. E non c'è da stupirsi poi se nel 2010 il nostro paese si sia piazzato al ventesimo posto su venticinque nella classifica sul grado di complessità della burocrazia a livello internazionale.
Operazioni che in Germania o in Olanda vengono fatte con un clic – lì ladigitalizzazione e l'informatizzazione dei sistemi di comunicazione non sono una chimera ma una realtà – da noi vengono fatte a mano, con carta e penna, o con l'ausilio, costoso, di dipendenti.
Un esempio su tutti? Lo fornisce Paolo Federici, da più di 30 anni nel settore dei trasporti internazionali e autore di un blog (lanavedeisogni.com) in cui affronta tutte le problematiche del settore.
“Per i pagamenti dei dazi doganali noi dobbiamo andare in banca, far fare un assegno circolare, prendere un’automobile, arrivare dove c’è la dogana, fare la fila, versare e consegnare gli assegni e tornare indietro. Con tutte le spese connesse: dall'autostrada, alla benzina passando per il personale utilizzato per un'operazione che in Germania e in Olanda fanno in 30 secondi al pc”, spiega Federici.
Che poi aggiunge un dettaglio non trascurabile: “Dal 1991, c'è una legge che stabilisce che anche in Italia possiamo pagare i dazi doganali tramite bonifico, ma il problema è che tra Agenzia della dogana, Agenzia delle entrate e Banca d’Italia non sono riusciti a mettersi d’accordo per aprire un conto in banca”. E sono passati 21 anni...
Hai voglia a parlare di snellimento della macchina burocratica. E se si passa ad analizzare la lista delle dichiarazioni da sottoscrivere per importare ed esportare, la situazione diventa paradossale. Come dicevamo, i moduli da compilare possono arrivare a 68. C'è lascheda di trasporto, un documento che “vantiamo” di avere solo noi. C'è la dichiarazione Black list, (anche questa l'abbiamo solo noi in Italia) cioè una comunicazione da fare all’Agenzia delle entrate ogni qualvolta si effettua o si riceve un pagamento nel rapporto con un’azienda residente in uno dei circa 70 Stati che rientrano nella lista nera.
“Noi esportiamo i metalli in foglia e per un carico del valore di 150 euro spedito a Malta abbiamo dovuto fare la dichiarazione black list. Ci sembra una cosa aleatoria”, denuncia Carlo Magani, componente di giunta di Confapi industria e responsabile del distretto sud est di Milano.
Dal 2010, è stata estesa anche alle aziende di servizi la dichiarazione Intrastat, con la quale si elencano tutti gli acquisti e le cessioni di beni mobili e servizi.
Poi c'è la dichiarazione cane-gatto, in cui si attesta che il prodotto non contiene peli di cane e/o di gatto. “Questa è la dichiarazione più richiesta. Noi importiamo circa 12 milioni di merci all'anno e su circa 3milioni e mezzo dobbiamo fare la dichiarazione cane e gatto”, lamenta Federici.
Oltre al cane e al gatto, c'è anche la dichiarazione sui peli di foca. Il secondo documento più richiesto. Poi ancora c'è la dichiarazione legata al nichel. Quella in cui si attesta che la merce non è stata a contatto con le bustine di muffa.
Poi c'è la dual-use. In pratica, se esporti o importi sedie destinate a un bar devi dichiarare che non siano utilizzate per torturare qualcuno, se importi o esporti tubi per gas devi assicurare che non verranno usati per costruire la bomba atomica. Follie burocratiche a cui gli imprenditori si sono ormai abituati. Ma la lista non finisce qui. C'è la dichiarazione sui beni culturali, quella sulle merci che potrebbero essere utilizzate per infliggere trattamenti crudeli, quella sulle specie minacciate di estinzione, flora e fauna, quella sulle sostanze chimiche pericolose, quelle sulle sostanze che riducono lo strato di ozono e quelle sulla radioattività (dopo Fukushima). Solo per citarne alcune.
Oltre il danno, c'è poi la beffa. Perché mentre in Germania e in Olanda e in altri paesi Ue hanno realizzato lo sportello unico per compilare tutti questi moduli, da noi ci sono diversi uffici che hanno orari e sedi differenti. “Dobbiamo ogni volta andare in 5-6 uffici per fare una operazione e per avere altrettanti documenti”, tuona Federici, aggiungendo come tutto questo comporti ulteriori costi relativi al personale e alle spese di compilazione. In Italia, al momento di unico c'è solo il paradosso
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