venerdì 25 maggio 2012

quel "furbetto" del mai-eletto Monti...

La Bocconi di Monti: sconto
da 600mila euro sull'Imu

di Marta Bravi
Anche l’ateneo del premier è esente da Ici per la Casa dello studente, i cui affitti variano da 3.150 a 7.650 euro l’anno. Contenzioso col Comune per il 2002-2006
Quesito per i lettori (ma non solo): è giusto che un’univer­sità privata come la Bocconi non paghi l’Ici, quando i cittadini do­vranno fare i conti con tassazioni lacrime e sangue, anche sulla pri­ma casa? Mentre la giunta dei ga­bellieri Pisapia-Tabacci lavora di lima per definire i dettagli del bi­lancio di previsione 2013 che ver­rà approvato questa mattina in giunta, la blasonata università aspetta che la giustizia faccia il suo corso sul contenzioso aperto con il Comune di Milano per quat­tro anni di mancato pagamento dell’Ici sugli alloggi universitari. L’amministrazione arancione hafissato l’aliquota Imu allo 0,4%sul­la prima casa e allo 0,8 per la secon­da: una gabella che se terrorizza da mesi i cittadini non tange mini­mamente gli atenei, pubblici o pri­vati poco importa, che godono del­le esenzioni previste dalla legge 504 del 1992.
L’articolo 7 esonera dal paga­mento dell’Ici tutti gli edifici adibi­ti a sede «con finalità istituzionali, assistenziali, previdenziali, sani­tarie, didattiche, ricettive, cultura­li,
ricreative e sportive». Così gli studentati universitari, statali o privati, che affittino a canoni age­volati o meno, godono di queste esenzioni. Qualche incertezza pe­sa sulla Bocconi: l’ateneo di via Sarfatti sta aspettando che la giu­stizia tributaria si esprima sul ca­so della residenza di via Spadoli­ni, su cui è aperto un contenzioso con il Comune. Impossibile cono­scere la data della sentenza della Cassazione che dovrebbe mette­re la parola fine a un vicenda che dura da ben sette anni.L’universi­tà economica, guidata fino a poco tempo fa dal premier Mario Mon­ti, non ha pagato (dal 2002 al 2006) l’imposta comunale sugli immo­bili per la casa dello studente di via Spadolini 12 così come per le al­tre 4 residenze (Bocconi, Arcoba­leno, Javotte, Dubini). Il Comune, da parte sua, dopo il primo avviso di accertamento recapitato nel marzo 2008, ha continuato ad ag­gio­rnare le cartelle esattoriali por­tando il contenzioso a 600mila eu­ro.Il 22 dicembre il sindaco Pisa­pia ha firmato l’incarico all’avvo­catura comunale per chiudere la questione, opponendosi alle due pronunce tributarie che finora hanno dato ragione all’ateneo, che vanta bilanci in perfetto ordi­ne. La Bocconi,gode già dell’esen­zi­one per la sede storica di via Sar­fatti.Lascia perplessi il fatto che dei 1.400 posti letto disponibili nelle 5 residenze per studenti, che vengo­no affittate da 3.150 euro a 7.650 l’anno a seconda delle fasce di red­dito, non siano considerate strut­ture a scopo di lucro. Ampia la scel­ta: si va singole con bagno privato o in condivisione, tutte arredate con letto, scrivania, armadio, e tut­ti i comfort (frigo, cassaforte, aria condizionata e connessione inter­net) a stanze in appartamenti da quattro a monolocali. Altissima la domanda: dei 13.807 iscritti il 59,3% degli studenti del triennio arriva da fuori Regione, il 14,3% dalla Lombardia, il 10% sono stra­nieri, stessa percentuale di stu­denti provenienti da tutta Italia per il biennio, 12,8% dalla Lom­bardia, 11,4% dall’estero. Il par­cheggio, l’accesso alla palestra, la mensa si pagano a parte, oltre alla retta universitaria chiaramente. Basta dare un’occhiata alle deci­ne di cartelli «affittasi» che cam­peggiano nella bacheca per ren­dersi conto che gli alloggi per gli economisti in erba sono a prezzo di mercato: le stanze vanno dai 400 ai 750 euro spese incluse. Così come suona quanto meno strano che delle cinque case dello studen­te, che rientrano nella stessa esen­zione, l’amministrazione si sia in­teressata solo a quella di via Spa­dolini.
«L’università Bocconi - la repli­ca ufficiale- non ha versato l’Ici so­lo sugli edifici per i quali, ai sensi dell’art.7 D.Lgs. 504/92, ritiene di aver diritto all’esenzione. Il con­tenzioso in corso con il Comune di Milano riguarda, per gli anni 2002-2006, solo uno dei pensiona­ti dell’università, peraltro in tutto e per tutto analogo agli altri. I giu­dici tributari si sono sempre espressi riconoscendo tale dirit­to, tanto che è il Comune soccom­bente ad aver appellato in Cassa­zione tutte le precedenti sentenze
 a esso sfavorevoli».

Ops, L'Espresso (e La Repubblica) evadono il fisco!!!

La solita doppia morale
L'Espresso di De Benedetti
evade 225 milioni di euro

di Luca Romano
Il gruppo editoriale L'Espresso è stato condannato al pagamento di imposte su plusvalenze non dichiarate per un importo pari a oltre 440 miliardi delle vecchie lire. L’Espresso: sentenza infondata e illegittima
L'Espresso è stato condannato al pagamento di imposte su plusvalenze non dichiarate. Il gruppo editoriale: sentenza infondata e illegittima
225 milioni di euro. Il gruppo editoriale L'Espresso è stato condannato al pagamento di imposte su plusvalenze non dichiarate per un importo pari a oltre 440 miliardi delle vecchie lire. A ciò si aggiungono altri costi ripresi a tassazione per circa 14 miliardi e il pagamento di spese di giudizio per complessivi 500 mila euro.
Si tratta di una pronuncia che riguarda gli accertamenti dell’Agenzia delle entrate nei confronti della società risalenti all’esercizio 1991. In particolare, la commissione ha dichiarato "legittima la ripresa a tassazione di 440.824.125.000 lire per plusvalenze, ad avviso della commissione, realizzate e non dichiarate e di 13.972.000.000 lire per il recupero di costi assunti come indeducibili afferenti a dividendi e credito di imposta, con applicazione delle sanzioni ai minimi di legge e condanna alle spese di giudizio".
Il gruppo Espresso non ci sta e rileva che i propri ricorsi contro questi accertamenti erano stati accolti in due precedenti gradi di giudizio e che i fatti contestati erano stati dichiarati insussistenti in sede penale. L’Espresso ritiene la sentenza di oggi sia "manifestamente infondata oltreché palesemente illegittima sotto numerosi aspetti di rito e di merito" e confida che sarà annullata. Ha dunque dato mandato ai propri legali per il ricorso in Cassazione.

giovedì 24 maggio 2012

La lettera delle BR: come dar loro torto???

Ancona, Lettera "Br" all'Ansa
"Non colpiamo gli studenti"

di Andrea Cortellari
Una missiva firmata "Brigata Gino Liverani" nega responsabilità brigatiste sull'attentato di Brindisi e avverte: "La lotta è ripresa". LEGGI LA LETTERA
Ancona, Lettera "Br" all'Ansa"Non colpiamo gli studenti"
La lettera delle B.R.
Una lettera inviata alla sede anconetana dell'Ansa e firmata "Brigate Rosse, Brigata Gino Liverani Diego" nega responsabilità dei brigatisti nei recenti eventi di cronaca nera, compreso l'attentato che ha causato la morte di una studentessa a Brindisi.
"Non sono certo gli studenti o i lavoratori i nostri obiettivi", si legge sulla missiva a firma Br. "Nuove le idee, immutati gli obiettivi".
"Nonostante il subdolo quanto fallimentare tentativo di addossare responsabilità inesistenti su chi conduce la lotta contro il capitalismo e i poteri forti, difesi da questo governo fascista, capeggiato da Monti, con la complicità di Napolitano, in occasione dell’attentato di Brindisi, i fedeli guardiani degli interessi dei padroni, i soliti pennivendoli, continuano nella loro opera di disinformazione!".
"Sono ben altri gli obiettivi dei combattenti! Padroni, classi dirigenti, banchieri prostitute di Stato!! I loro uffici del personale fedeli cani da guardia, aguzzini dei lavoratori. Non sono certo gli studenti o i lavoratori in nostri obiettivi!! Voi che avete vissuto e vivete sfruttando e calpestando, è giunto il momento di guardarvi le spalle!". E concludono con un "La lotta è ripresa".
Ancora da capire se il mittente del foglio fotocopiato, impostato il 23 Maggio ad Ancona, sul quale è visibile anche il logo della stella a cinque punte, sia davvero riconducibile ad ambienti brigatisti.
La presunta Brigata mittente della lettera prende il nome dal brigatista della colonna marchigiana Tommaso Gino Liverani, morto nel 1985 a Managua, in Nicaragua.

Miei personali commenti:
* secondo me è sbagliato solo il metodo disumano (quello di ferire ed uccidere delle persone) di raggiungere gli obiettivi, non gli obiettivi di difesa del lavoratore e dei più deboli;
* un altro errore e che l'attuale governucolo italiano è un "governo COMUNISTA" e non fascista: è stato nominato da Re Giorgio (Napolitano) anziché venir eletto dal popolo (che è "sovrano" solo nella Costituzione, per il resto è buono solo per essere spremuto, vilipeso e mortificato dai governanti) ed è stato Giorgio Napolitano un iscritto al P.C.I. (Partito COMUNISTA Italiano), non certo al Partito Nazional-Fascista: questo sia chiaro a chi scrive stupidate, anche se, capisco!, essendo loro delle Brigate ROSSE non possono dire che stiamo di merda SOTTO UN GOVERNO COMUNISTA, "cagatoci" in testa in stile sovietico!!!
Flaviaccia

La Finocchiaro fa la spesa... con la scorta




Simpatico quadretto familiare all'Ikea: la senatrice Pd compra le padelle e gli uomini della scorta spingono il carrello. Ma sono pagati da noi!!!

il doppio-gioco di sinistra...

Nel 1992 Repubblica
chiamava guitto Falcone
Ma l'articolo è sparito

di Raffaello Binelli
Nel gennaio 1992 Repubblica massacrò Falcone: "Un comico del carrozzone televisivo". Oggi di quell'articolo non c'è più traccia. Noi lo abbiamo trovato. La sinistra dava del guitto a Falcone
Ieri è stato celebrato il ventennale della strage di Capaci, dove persero la vita il giudice Falcone, sua moglie e tre uomini della scorta.Tutti i giornali, giustamente, hanno dato ampio risalto alla memoria del magistrato massacrato dalla mafia. Anche Repubblica, che per l'occasione ha preparato un cofanetto (film + libro) in vendita a 12,90 euro. Fa un certo effetto leggere cosa scriveva Repubblica nel 1992: "Falcone sciorina sentenze in tivù, è un comico, un guitto, che può gareggiare coi comici del sabato sera" (la Repubblica, 9 gennaio 1992).
Diciamo la verità, non era una carineria. A firmare l'articolo fu Sandro Viola. Venti anni fa Repubblica prese di mira Falcone accusandolo di essere "preso da una febbre di presenzialismo. Sembra dominato da quell’impulso irrefrenabile a parlare, quella smania di pronunciarsi, di sciorinare sentenze sulle pagine dei giornali o negli studi televisivi, spingendolo a gareggiare con i comici del sabato sera. In Falcone si avverte l’eruzione di una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis o dei guitti televisivi".
Per rileggere il testo completo di quell'articolo siamo andati a cercarlo nell'archivio online del sito di Repubblica. Ma non l'abbiamo trovato. Non crediamo sia stato rimosso volutamente. Forse non è masi stato caricato nel sistema. Che dimenticanza, eppure è un pezzo di storia. Per fortuna, però, ci pensa Google. Digitando le parole "Falcone 9 gennaio 1992 la Repubblica" si trovano molti siti che citano quel testo di Viola, con tanto di foto. Ve lo riproponiamo (leggi l'articolo di Sandro Viola / Falcone, che peccato...). E' interessante leggerlo, per farsi un'idea e per capire.




venerdì 18 maggio 2012

Come mi è giunta da un amico che ci legge, così la condivido con voi tutti.
Buon divertimento!
Flavia

Collette bianche
Non inconsueto ingorgo in pieno centro a Roma. Un conducente d’autobus abbassa il finestrino e chiede cos’è successo ad un uomo che vede accostarsi a tutti i finestrini delle auto ferme. L’uomo risponde: ”Alcuni terroristi sono entrati a Montecitorio ed hanno sequestrato tutti i deputati. Se non si raggiunge la cifra di 10 milioni di euro li cospargeranno di benzina e gli daranno fuoco. Così stiamo facendo una colletta”. 
E “Quanto stanno dando gli altri”, chiede l’autista. 
E l’altro: “Beh, alcuni mezzo litro, altri un litro  

mercoledì 16 maggio 2012

Marco Travaglio, il giornalista "a 90" coi sinistri solo per colpire Berlusconi

L'ultimo dossier di Travaglio
infanga la carriera di Grasso

di Stefano Zurlo
Il giornalista riscrive la storia della nomina del procuratore antimafia per attaccare le sue frasi pro Berlusconi. Ma ne dimentica l'impegno
Noi non lo sapevamo. Ci era sfuggito che sulla poltrona di procuratore nazionale antimafia fosse seduto un abusivo. Un certo Piero Grasso, un furbetto non si sa bene di quale quartierino che ha letteralmente fregato il fregiato incarico al ben più titolato Gian Carlo Caselli, peraltro oggi ottimamente installato a Torino, dove si è guadagnato anche i nostri applausi per le inchieste senza se e senza ma su No Tav e relativa guerriglia. Così va il mondo, ci eravamo persi qualcosa e ora è Marco Travaglio a spiegarci la vera storia dell’antimafia militante, dopo averci già proposto negli ultimi quindici anni la vera storia di Cosa nostra. Semplificando, tutti e due i fiumi portano a Silvio Berlusconi. Dunque ieri sul Fatto quotidiano il Travaglio furioso ha messo a posto lo spudorato Grasso che a Radio 24, nel corso del programma La Zanzara, aveva riconosciuto a Berlusconi quel che è di Berlusconi e del suo governo: i meriti, alcuni meriti, nello lotta a cosa nostra. Eresia. Scandalo. Pianto greco.
E allora il Travaglio sempre più furioso, invece di interrogarsi sul perché di quelle parole, le ha ricoperte di fango. Fango retrospettivo, fango capace di rovinare una carriera intera, fango che si attacca addosso. Sia chiaro: ci sono magistrati che non godono di una claque perenne, semplicemente perché fanno il loro lavoro, con discrezione. Alla Grasso, per intenderci: non c’è bisogno di strappare loro l’aureola perché nessuno l’ha mai appoggiata sulle loro teste. Altri giudici invece, al solo pronunciare il nome, vengono venerati come i santi. Due pesi e due misure. Pazienza. E allora Travaglio ha fatto di più: ha dipinto Grasso come un verme che striscia alla corte di Silvio e quando più gli serve, nel 2005, nei mesi in cui si deve nominare il nuovo procuratore nazionale, al posto di Piero Luigi Vigna, prossimo alla pensione, e due sono i contendenti: Grasso e Caselli. Due facce complementari della magistratura: Grasso è l’icona della normalità, Caselli è l’icona della magistratura militante. Ci eravamo persi però che Grasso fosse un verme. La sua colpa? Aver sfruttato le trame di Palazzo che, secondo il solito Travaglio, hanno accompagnato la sua elezione. Ecco, per il Fatto ci furono manovre e contromanovre per tenere alla larga da quella stanza Caselli e la compagine berlusconiana fra decreti e contorcimenti, le studiò tutte per affossare Caselli e mandare avanti il rivale. Non che non ci furono pressioni e schieramenti e divisioni, nella politica e nella magistratura, per quella poltrona come per tante altre. Stupisce però che si possa colpire così una persona perbene, fino a prova contraria, e si legga quella sofferta incoronazione come la didascalia di quella frase alla radio.
Ma è avvilente che si possa interpretare tutta una lunga carriera solo per virare su Arcore. Se non sbagliamo, e non sbagliamo, l’obliquo Grasso è lo stesso magistrato catapultato come giudice a latere al leggendario maxiprocesso, quello imbastito a Palermo contro la bellezza di 475 mafiosi e chiuso, dopo una camera di consiglio lunga come un conclave, con decine di ergastoli. Grasso, sì sempre lui, è lo stesso magistrato cui Giovanni Falcone, sì proprio Falcone, dice: «Vieni, ti presento il maxiprocesso», come il procuratore racconta nel suo freschissimo e a tratti commovente Liberi tutti (Sperling & Kupfer). Grasso, sì ancora lui, è lo stesso magistrato che rischia di saltare in aria quando i picciotti di Cosa nostra lo avvistano insieme a Giovanni Falcone, ancora lui, e a tre giornalisti - Attilio Bolzoni, Felice Cavallaro e Francesco La Licata - in un ristorante di Catania. Peccato che Travaglio ignori questi fastidiosi dettagli e tanti altri. Anzi, no. Uno va divulgato, come ha fatto lo stesso procuratore con Tiziana Panella per Coffee break su La7. L’11 aprile 2006 quando viene catturato un certo Bernardo Provenzano, Grasso, pm fino al midollo, non si perde in proclami e conferenze stampa ma prova, da siciliano a siciliano, a prospettargli una collaborazione con lo Stato. Tanto che l’altro, disorientato, vacilla un istante prima di rispondere: «Sì, ma ciascun nel suo ruolo». Oggi Grasso guarda a quel passato che a Palermo è scritto nelle lapidi e replica: «Se penso alle delegittimazioni che in vita hanno subito Falcone e Borsellino mi sento fortunato». Chapeau.

In politica (italiana) oltre i comici anche i... pagliacci!!!

Prima la doppia morale,
adesso il doppio rating

di Andrea Cuomo
Con Berlusconi premier, Casini e Bersani plaudivano ai giudizi negativi sull’Italia. E ora attaccano le agenzie
E adesso, tutti addosso a Moody’s. Compresa la Consob, che ha convocato i rappresentanti italiani dell’agenzia di rating per avere delucidazioni sul declassamento di 26 banche italiane. Agguato!, criminali!, si sente gridare da ogni parte. Anche da chi qualche mese fa, quando al governo c’era Silvio Berlusconi e non Mario Monti, prendeva per oro colato le «pagelle» delle agenzie internazionali di rating, portandole come prove a carico dell’allora grande imputato della politica italiana. Il portabandiera della doppia morale è Pier Ferdinando Casini, leader dell’Udc (Unione delle Contraddizioni?). Leggete infatti cosa scriveva il 20 settembre scorso, quando Standard and Poor’s declassò la valutazione del debito italiano da A+ ad A: «In questa caccia disperata al colpevole speriamo che non siano incolpate le agenzie di rating perché il problema non sono loro. Il problema siamo noi che non abbiamo saputo fare una manovra strutturale per la crescita. Il problema è la credibilità internazionale del governo». Oggi il governo italiano è internazionalmente credibile e la colpa diventa dell’arbitro. Sentite infatti l’incendiaria dichiarazione di ieri: «La decisione di Moody’s è di una gravità inaudita, c’è un disegno criminale delle agenzie di rating contro l’Italia e l’Europa. È un attentato all’economia di questo Paese e noi riteniamo che la perdita di credibilità delle agenzie di rating da oggi sia totale. Ecco perché è importante avanzare al più presto la proposta di un’agenzia di rating europea». Tra i pentiti avvistato anche Pier Luigi Bersani. Il 5 ottobre scorso, dopo un’altra mazzata targata Moody’s, il segretario Pd constatava: «A questo punto le favole non bastano più. L’Italia sta certamente meglio di quanto non dica il giudizio di Moody’s, ma siamo davanti a rischi di scivolamento ulteriore se non introduciamo un elemento di novità o di cambiamento». Una valutazione finanziaria trasformata in ingiunzione di sfratto per Berlusconi. Ora toni ben diversi: «Bisogna regolare queste benedette agenzie - dichiara Bersani a Porta a Porta - che si permettono di intervenire in un modo che farebbe sorridere, se non facesse piangere».
Naturalmente anche i banchieri non la prendono bene. «Un’aggressione all’Italia, alle sue imprese, alle sue famiglie, ai suoi cittadini», grida l’Abi, che parla delle agenzie di rating come «elemento di destabilizzazione dei mercati con giudizi parziali e contradditori». Disperato l’appello del presidente Giuseppe Mussari: «Chiediamo con forza che la Bce e le istituzioni europee non tengano conto di questi giudizi altrimenti diventa un corto circuito dal quale non usciamo». Più morbido il presidente Bnl, Luigi Abete, che parla di «atteggiamenti delle agenzie di rating un po’ volubili. Alcune volte il Paese e le imprese dei Paesi vengono attaccati perché non c’è troppo rigore, oggi perché la riforma applica il rigore».
In questo stracciamento di vesti generale, gli esponenti del Pdl non hanno problemi di coerenza: «Quella delle agenzie di rating che hanno declassato le banche italiane è l’ennesima dichiarazione di guerra non provocata e non giustificata», constata Margherita Boniver, presidente del Comitato Schengen. «È proprio il caso di dire che l’attacco di Moody’s è la goccia che fa traboccare il vaso», annota Fabrizio Cicchitto, presidente dei deputati del Pdl. E se anche il segretario dell’Ugl Giovanni Centrella parla di «segnale destabilizzante per il sistema bancario italiano, da parte di un soggetto portatore di interessi estranei a quelli europei», l’unico a giocare al tanto peggio tanto meglio resta Felice Belisario dell’Idv: «Le agenzie di rating non sono certo la Bibbia, perché il loro giudizio può essere frutto anche di interessi speculativi, ma il declassamento del Paese reale è sotto gli occhi di tutti ed è inutile negarlo».

Se fossero seri si sarebbero dimessi!!!

Processo Mills, per i giudici
Berlusconi andava assolto

di Luca Fazzo
Nelle motivazioni della sentenza che ha prosciolto il Cav bocciati i teoremi della procura: "Nessuna prova"
«Nessun dato di fatto, nessuna prova storica». Difficile trovare, nella lunga e accidentata storia delle inchieste giudiziarie a carico di Silvio Berlusconi, una bocciatura così solenne delle tesi delle Procure. Il Cavaliere, come si sa, è sempre uscito incolume dai processi a suo carico. Ma - in virtù se non altro del sacro principio della colleganza - i giudici non infierivano mai sui pubblici ministeri. Invece i magistrati chiamati a giudicare Berlusconi (quando era ancora presidente del Consiglio) per la corruzione dell’avvocato Mills, maltrattano senza riguardi il pm Fabio De Pasquale, che per il Cavaliere aveva chiesto cinque anni di carcere. Se non fosse intervenuta la prescrizione, scrivono senza semitoni i giudici del tribunale di Milano, Berlusconi sarebbe stato assolto. Perché, piaccia o non piaccia, le regole del processo valgono per tutti, «anche quando siano scomode». E nessuna prova degna di questo nome è stata portata in aula che indicasse l’ex premier come il mittente dei 600mila dollari arrivati a Mills, testimone reticente nei processi degli anni Novanta a Berlusconi e alla Fininvest.
Il 25 febbraio scorso, quando il tribunale presieduto da Francesca Vitale dichiarò il proscioglimento di Berlusconi per «estinzione del reato», il coro fu quasi unanime: ecco, l’ennesima prescrizione, Berluska l’ha fatta franca con il Lodo Alfano e la Cirielli. Ma l’altro ieri il giudice Vitale deposita - con ampio anticipo sui termini - le motivazioni che ribaltano tutto. Sono 77 pagine che arrivano in diretta sulla prima pagina del Corriere, e che contengono anche giudizi severi sul ruolo svolto in questa lunga storia da altri giudici milanesi, accusati dalla Vitale di essere i veri responsabili della prescrizione. Ma in quelle pagine c’è una novità ben più rilevante. Ed è la bocciatura senza mezzi termini delle tesi della Procura.
Unica concessione: non esiste neanche la prova contraria, quella certezza solare dell’innocenza di Berlusconi che avrebbe costretto il tribunale a emettere un’altra sentenza, sorvolando sulla prescrizione e assolvendo l’imputato con formula piena. Sulla posizione di Berlusconi resta l’ombra delle dichiarazioni dello stesso Mills, che prima sostenne di avere ricevuto i soldi da lui e poi si rimangiò tutto, offrendo «spiegazioni assai poco convincenti» della sua retromarcia. Ma più in là di questo, dice il tribunale, non si può andare. E il fatto che la Cassazione abbia ritenuto provata la colpevolezza di Mills - che però se la cavò, lui sì, solo grazie alla prescrizione - non vuol dire affatto che sia colpevole anche Berlusconi.
Davanti alla nettezza di questo giudizio, ieri parte immediatamente la caccia al retroscena. Perché le motivazioni depositate in cancelleria portano la firma solo del presidente Vitale, e non anche dei giudici a latere Francesca Lai e Antonella Interlandi? Significa che solo la Vitale è convinta della mancanza di prove? Dietro, ovviamente, c’è un non detto: la Vitale non è quel che si dice una «toga rossa», e fin dall’inizio del processo è accusata di non avere sposato con sufficiente determinazione le tesi della Procura. Che sulla sentenza ci sia solo una firma, dimostra che è lei la cattiva, la garantista all’eccesso. Ma non c’è giallo, in realtà. La Vitale firma da sola perché era la presidente, e la sua firma è sufficiente: ma il testo, scelte lessicali a parte, non è farina solo del suo sacco. Almeno un altro giudice, nel segreto della camera di consiglio, ha condiviso le stesse opinioni.
Così, non resta che prendere atto serenamente di quello che è accaduto, e che prima o poi era inevitabile che accadesse. La sentenza dice che Berlusconi non poteva essere condannato, e arriva a dirlo smontando uno per uno i pezzi dell’accusa. È vero, dice, che Mills quando venne interrogato nei vecchi processi un po’ disse e un po’ non disse, evitando di raccontare chiaramente che i conti off-shore erano di Berlusconi: ma «non vi è certamente spazio per affermare che le testimonianze di Mills vennero pilotate o influenzate», «è evidente che quanto dallo stesso dichiarato nei processi Arces e All Iberian è stato frutto di una propria ed autonoma determinazione». E le colossali perizie che sia l’accusa che la difesa hanno portato in aula per ricostruire il percorso dei soldi che costituirebbero la contropartita di quei silenzi non hanno in realtà chiarito un bel nulla: «nessuna verità, neppure processuale, può dirsi a questo punto raggiunta». «Spiace dirlo: ma la montagna ha partorito il topolino».

Re Giorgio (Napolitano), grazie per questo governucolo!!!

I PROF CI TASSANO
E POI FRODANO IL FISCO

di Stefano Filippi
Imbarazzo al governo per il sottosegretario alla Giustizia Zoppini costretto a dimettersi: è indagato. L'accusa: soldi in nero per favorire una truffa. È il terzo scivolone: Malinconico cadde sulle vacanze, Cecchi nei guai per un falso crocifisso
Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Zoppini accusato di aver aiutato alcuni imprenditori a realizzare una frode fiscale. È il terzo scivolone dell'esecutivo
Un membro del «governo delle tasse» accusato di frode fiscale è come un cieco messo a fare il vigile o un astemio in casa Antinori. Non ci si crede. Non c’azzecca nulla, direbbe Antonio Di Pietro. Peggio: ti rovina l’immagine, demolisce in un attimo quello che hai costruito. Ecco, nel tecnoesecutivo dei professori, tra i ministri che hanno innalzato la pressione fiscale a livelli borbonici, non c’era soltanto un sottosegretario (Carlo Malinconico, presidenza del Consiglio) ospitato in vacanze di lusso da un imprenditore indagato per tangenti che sghignazzava nella notte del terremoto in Abruzzo. O un secondo sottosegretario (Roberto Cecchi, Beni culturali) che per la Corte dei conti dovrebbe restituire 600mila euro all’erario per il discusso acquisto di un crocifisso attribuito a Michelangelo.
C’era anche un terzo sottosegretario (alla Giustizia) sotto indagine per il sospetto di aver truffato l’erario. Il quale ieri ha ricevuto un avviso di garanzia e un invito a comparire, e dopo un breve giro di telefonate ha dovuto dare le dimissioni. Il suo nome, sconosciuto ai più fino a ieri sera, è Andrea Zoppini, romano, 47 anni, docente di Diritto privato all’università di Roma Tre, studi a Cambridge, Heidelberg, Yale e New York, avvocato cassazionista, collaboratore del Sole24Ore. Il ministro Paola Severino gli aveva attribuito deleghe quali «l’assegnazione di reperti confiscati di interesse storico-archeologico-scientifico» o il «conferimento onorificenze al Corpo di polizia penitenziaria».
Secondo la procura di Verbania, il professor Zoppini attraverso le sue attività di consulenza avrebbe aiutato alcuni imprenditori del Piemonte orientale a realizzare una frode fiscale internazionale e avrebbe ottenuto compensi in nero versati su conti esteri. L’iscrizione nel registro degli indagati sarebbe stata presa dopo l’esame di documenti «extracontabili» della ditta Giacomini (produttrice di rubinetterie e impianti di raffreddamento) acquisiti dalla Guardia di finanza durante un’ispezione fiscale. «Ho piena fiducia nell’operato della magistratura e ritengo di poter chiarire ogni aspetto che mi riguarda – ha detto Zoppini – ma la situazione che si è creata è incompatibile con la funzione di sottosegretario».
Malinconico, Cecchi, Zoppini. Tre scivoloni gravi per il governo dei risanatori d’Italia. Tre sottosegretari (due dimissionari) con imbarazzanti scheletri negli armadi. E si potrebbe aggiungere la polemica sul ministro della Funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi, proprietario di una casa vicina al Colosseo acquistata dall’Inps a un quarto del suo valore effettivo di mercato. Ma quest’ultimo è il caso più clamoroso: nel governo che tartassa gli italiani e si gioca tutta la sua autorevolezza nella lotta agli evasori fiscali, con i contribuenti drammaticamente spremuti dalle agenzie di riscossione, sedeva un professore accusato di aver frodato il fisco, di aver intascato soldi in nero e su conti esteri.
Zoppini è il meno noto al grande pubblico, ma non alla nomenklatura romana. I maligni mormorano che il suo asso nella manica sia lo stretto rapporto professionale e di amicizia con il professor Giulio Napolitano, secondogenito del capo dello Stato, anch’egli docente di Diritto a Roma Tre (il cui rettore, Giulio Fabiani, è parente della signora Clio). I due hanno anche scritto assieme un apprezzato saggio giuridico, Le Autorità al tempo della crisi (Il Mulino, introduzione di Enrico Letta). Zoppini è stato anche consulente della lista Prodi e della Banca d’Italia, consigliere giuridico della presidenza del Consiglio scelto dal sottosegretario Enrico Letta e confermato nell’incarico dal governo Berlusconi.
Ma, come ha scritto in febbraio il settimanale Panorama, Zoppini era già inciampato tre volte da quando è approdato in via Arenula. A metà gennaio aveva presentato – e ritirato precipitosamente – un emendamento in materia di deliberazioni societarie che si sarebbe applicato soltanto al caso dell’impresa Salini, un gigante delle costruzioni dilaniato da una contesa sulla proprietà che avrebbe beneficiato uno dei due rami della famiglia. Successivamente si è saputo che il professore era impegnato come arbitro in una lite tra Ferrovie e Fiat sui lavori per i binari ad alta velocità tra Novara e Milano. Ai membri del governo è vietato ricoprire incarichi o funzioni in enti pubblici come le Fs. Alle accuse di conflitto d’interessi Zoppini replicò con un telegrafico «Valuterà l’Antitrust». Secondo Panorama gli arbitrati del docente sarebbero una decina, per un valore di alcuni milioni. Infine, nel pieno della bagarre sul caso Lusi (il parlamentare accusato di essersi appropriato dei soldi della Margherita di cui era tesoriere), saltò fuori che proprio in virtù di un parere «pro veritate» di Zoppini l’allora presidente del partito, Enzo Bianco, convocò soltanto 12 dei 398 membri dell’assemblea federale per discutere del bilancio del partito.

martedì 15 maggio 2012

Travaglio doloroso (con aborto)

di Alessandro Sallusti
C’è un Travaglio sofferente in corso. C'è dolore interiore e angoscia per le dichiara­zioni di Grasso che archi­viano definitivamente le accuse di mafio­sità per il Cav
Marco Travaglio, "giornalista"
C’è un Travaglio sofferente in corso. C'è dolore interiore e angoscia per le dichiara­zioni del procuratore capo dell'Antimafia, Piero Grasso, che archi­viano definitivamente le accuse di mafio­sità per Silvio Berlusconi e certificano la faziosità dei pm suoi accusatori, come Antonio Ingroia. Per Travaglio Marco ed Ezio Mauro, direttore de La Repubblica, pubblicare ieri una simile notizia è stato come partorire con dolore. Tanto che, più che un parto, il risultato è stato un aborto. La Repubblica l'ha nascosta in dieci righe a pagina 17 , il Fatto di Trava­glio non l'ha neppure pubblicata e, raro esempio di giornalismo, l'ha offerta ai suoi lettori sotto forma di una smentita (manco fosse l'ufficio stampa della Pro­cura di Palermo) firmata da Travaglio me­desimo.
L'Unità ha cambiato formato ma non pelle, e ha fatto ancora meglio: neppure un rigo. Su casi inversi, Emilio Fede è sempre stato più corretto e leale con i suoi ascoltatori, Augusto Minzolini ora appare, quale è, un gigante di libertà e professionalità.
Eppure di mafia Travaglio e Mauro se ne dovrebbero intendere. Ogni peto di pentito contro Forza Italia diventa titolo­ne, quando non libro, e il primo dei due con un presunto mafioso ci ha passato pure le vacanze (salvo trascinare in tribu­nale chi glielo ricorda, come è accaduto di recente a Gianni Riotta, altro cuor di le­one del giornalismo). Il mito di Ingroia, pm senza macchia, è a pezzi, ma i lacchè delle Procure stendono il cordone sanita­rio: tacere, nascondere, minimizzare o ri­vangare e vendere come fresche tesi ac­cusatorie già smontate e seppellite da sentenze definitive che ovviamente si tacciono.
Chi di pm ferisce, di pm perisce. Ma se fossi in Piero Grasso non starei tranquil­lo. Nei cassetti dei nostri eroi ci sono veli­ne per tutti, soprattutto per chi si sottrae al gioco del dagli al Berlusconi mafioso.

I sindacalisti (italiani) costano 151 milioni allo Stato


di Giacomo Susca
Nel rapporto sul costo del lavoro pubblico la Corte dei Conti mette il dito nella piaga dei permessi e delle assenze. Il ministro Patroni Griffi: stiamo preparando delle ispezioni a sorpresa
Pagati per non lavorare, sette giorni su sette, 365 giorni all’anno. Fortunati che hanno sbancato un «turista per sempre»? No, più di 4.500 dipendenti pubblici per i quali il Paese di Bengodi non è un luogo immaginario, ma la nostra Italia. La stessa assediata dalla cri­si, con le aziende costrette a chiu­dere, dei posti di lavoro tagliati e de­gli imprenditori suicidi. A certifi­carlo è la relazione della Corte dei conti, che ha calcolato il costo dei permessi sindacali nel 2010: 151 milioni di euro. Tranquilli paga Pantalone, cioè noi.
Spiegano i magistrati contabili: «La fruizione dei diversi istituti (aspettative retribuite, permessi, permessi cumulabili, distacchi) re­lativamente al 2010 può essere sti­mata come equivalente all’assenza dal servizio per un intero anno lavo­rativo di 4.569 unità di personale, pari a un dipendente ogni 550 in ser­vizio». E sì,perché è la somma che fa il totale. «Applicando a tale dato il costo medio di un dipendente pub­blico - sottolinea la Corte dei conti ­- il costo a carico dell’erario è stato di 151 milioni al netto degli oneri riflessi».
Altrettanto dolenti le note sulla produttività del settore pubblico. «In un contesto caratterizzato dalla perdita di competitività del sistema Italia» si ravvisano «preoccupanti segnali». In particolare, «il blocco della crescita delle retribuzioni complessive e della contrattazione collettiva nazionale hanno compor­tato il rinvio, da un lato, delle norme più significative in materia di valuta­zione del merito individuale e del­l’impegno dei dipendenti» e, dall’al­tro, «impeditol’avviodelnuovomo­dello di relazioni sindacali delinea­to nell’intesa del 30 aprile 2009, orientato ad una effettiva correla­zion­e tra l’erogazione di trattamen­ti accessori e il recupero di efficien­za delle amministrazioni», scrive nero su bianco la Corte.
Per il governo dei Prof non ci so­no buoni voti. È allarme sui «reitera­ti tagli lineari agli organici» che ri­schiano di avere «inevitabili, negati­vi riflessi sulla quantità e qualità dei servizi».Dubbi soprattutto sull’int­e­sa di maggio tra tecnici, enti locali e sindacati sulla capacità dell’attuale sistema di collegare «premialità in­dividuale » e aumento di produttivi­tà del settore pubblico. La Corte dei conti interviene sul fronte già caldo del costo del lavoro pubblico e sul­l’efficienza della burocrazia sotto­pos­ta negli ultimi anni a una cura di­magrante e a un ridimensionamen­to degli stipendi. Il ministro della Funzione pubblica Filippo Patroni Griffi è costretto a puntualizzare: «Le perplessità espresse dalla Corte sono le stesse che ci inducono a in­tervenire per far sì che questo mec­canismo possa realizzarsi nella pra­tica. Premiare i migliori e aumenta­re l­a produttività sono le nostre prio­rità». Tanto che Patroni Griffi ora pensa ai blitz. «Stiamo lavorando as­sieme alla Gua­rdia di Finanza per fa­re verifiche ispettive un po’ a sorpre­sa sulle consulenze esterne».
Lotta agli sprechi e ai fannulloni, insomma. Cavalli di battaglia di Re­nato Brunetta, che ora può prender­si una rivincita: «Il ministro Patroni Griffi farebbe bene ad andarsi a ri­leggere con attenzione il rapporto. La Corte promuove le riforme del governo Berlusconi e boccia l’inte­sa Patroni Griffi­ sindacati della not­te del 3 e 4 maggio». Ecco i passaggi che consentono all’ex ministro di ri­vendicare il buon lavoro svolto. «Al termine del 2010 i dipendenti in ser­vizio presso tutte le pubbliche am­ministrazioni con rapporto di lavo­ro a tempo indeterminato sono di­minuiti dell’ 1,9%, calo che fa segui­to a quello di analogo valore del 2009. Per la prima volta dalla priva­tizzazione del pubblico impiego- ri­leva la magistratura contabile - il conto annuale rileva una significati­va diminuzione del costo del perso­nale, su un valore di 152,2 miliardi» (1,5% in meno rispetto al 2009, seb­bene venga stigmatizzato il boom di assunzioni alla Presidenza del Consiglio nel 2010). Alla fine per Brunetta la chiosa è quasi scontata: «Il governo dei tecnici è nato per ri­solvere i problemi del Paese, non per realizzare regressioni a favore della cattiva burocrazia e del catti­vo sindacato». E 5mila assenteisti (col permesso dallo Stato) ringra­ziano.

venerdì 11 maggio 2012

MARCIA NAZIONALE PER LA VITA

Carissima,
domenica 13 maggio parteciperò alla Marcia Nazionale per la Vita che si terrà a Roma.
Condivido gli obiettivi e le motivazioni dei promotori di cui ti giro l’appello affinché tu possa, a tua volta, divulgarlo coinvolgendo il maggior numero di persone possibile.
Ci vediamo domenica,
Maurizio Gasparri


APPELLO MARCIA NAZIONALE PER LA VITA
Cara amica,

mancano ormai pochi giorni alla Marcia Nazionale per la Vita. Domenica 13 maggio, alle 8,30, ci troveremo tutti a Roma, al Colosseo, pronti a sfilare per le vie della capitale per dire il nostro si alla vita e il nostro fermo e deciso no all'aborto e a tutte quelle leggi che minacciano il concepito e che attentano alla morte naturale.

Le ricordiamo inoltre che il 12 maggio, dalle 14,30 alle 19, presso il Pontificio Ateneo Regina Apostolorum si terrà il Convegno "Chi salva una vita salva il mondo intero", mentre dalle ore 21 alle 22,30 nella Basilica di Santa Maria Maggiore vi sarà un'Adorazione eucaristica presieduta dal card. Burke in riparazione del crimine dell'aborto. Tutti sono invitati a partecipare. Per maggiori informazioni si può consultare il sito
www.marciaperlavita.it

La Sua presenza alla Marcia sarà fondamentale. La manifestazione risulterà decisiva per il futuro delle battaglie in difesa della vita. Più saremo, più il messaggio che lanceremo sarà influente sull'opinione pubblica e sul mondo politico. Noi non ci rassegneremo mai all'ingiusta legge 194 e lo grideremo a gran voce scendendo in piazza.

Con la speranza di ritrovarci tutti a Roma il 13 maggio, Le inviato i nostri più cordiali saluti

Il Comitato Marcia per la Vita
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