domenica 17 aprile 2011

Buona Domenica!

VANGELO
Gv 11,1-45
In quel tempo, un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato. Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. Le sorelle mandarono dunque a dire a Gesù: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato».
All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?».
Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui». Disse queste cose e poi soggiunse loro: «Lazzaro, il nostro amico, s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo». Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se si è addormentato, si salverà». Gesù aveva parlato della morte di lui; essi invece pensarono che parlasse del riposo del sonno. Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!». Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse agli altri discepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!».
Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. Betània distava da Gerusalemme meno di tre chilometri e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello. Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo».
Dette queste parole, andò a chiamare Maria, sua sorella, e di nascosto le disse: «Il Maestro èqui e ti chiama». Udito questo, ella si alzò subito e andò da lui. Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. Allora i Giudei, che erano in casa con lei a consolarla, vedendo Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono, pensando che andasse a piangere al sepolcro.
Quando Maria giunse dove si trovava Gesù, appena lo vide si gettò ai suoi piedi dicendogli: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: «Dove lo avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!». Ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?».
Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni». Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberàtelo e lasciàtelo andare». Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui.


In queste domeniche di Quaresima dell’anno A abbiamo il privilegio di leggere tratti di Vangelo così significativi che, se compresi nel profondo, possono davvero stravolgere in positivo il nostro rapporto con Dio, inaugurando in noi una nuova primavera spirituale che può farci rifiorire dal di dentro una volta per tutte… I brani delle ultime settimane, così come quello di oggi, venivano storicamente approfonditi nell’ultima fase del catecumenato, un cammino pluriennale di iniziazione e formazione cristiana per seguire consapevolmente Gesù che culminava nel battesimo durante la grande veglia del Sabato Santo: gli ultimi quaranta giorni di percorso, quelli quaresimali appunto, dovevano rappresentare un momento forte per fissare i fondamentali della fede che si sarebbe abbracciata di lì a pochi giorni, ed è proprio per questo che si ricorreva a pagine preziosissime come la samaritana, il cieco nato e, da ultimo, Lazzaro. Tutti tratti evangelici che pescano da Giovanni, colui che più di tutti ha saputo volare alto per individuare l’essenziale del cristianesimo e proclamarlo al mondo… Non sciupiamo, amici, questa grande occasione che la Chiesa ci offre per conoscere l’ABC del nostro credere: grazie al Cielo, che ha ispirato il Concilio Vaticano II con la sua grande ventata di novità, oggi non c’è più alcun bisogno di farsi cristiani per poter sperare nella salvezza, dunque è possibile diventare discepoli del Nazareno per entusiastica adesione alla sua Parola e non per sostanziale costrizione! Che il Signore ci conceda, a me per primo, di sfruttare questa preziosa opportunità per compiere un qualche primo passo di effettiva conversione, tanto per cominciare da quel mostro di dio vendicativo che ci siamo costruiti nella testa al Dio bellissimo incarnato da Gesù… Sarebbe, già solo per questo, una Quaresima più che riuscita!

Ma veniamo al Vangelo di oggi, che è particolarmente ricco e merita di essere analizzato più compiutamente possibile. Anzitutto, più che di resurrezione, bisognerebbe parlare di rianimazione di un cadavere: san Paolo ci dice chiaramente che soltanto “Cristo risuscitato dai morti non muore più” (Rom. VI, 9), mentre i pochissimi che Gesù ha rianimato (soltanto altri due oltre a Lazzaro: la figlia di Giàiro ed il figlio della vedova - Lc. VIII, 40-56 e Lc. VII, 11-17) sono stati destinati a morire una seconda volta… È positivo rianimare un morto per poi costringerlo a morire di nuovo? E soprattutto, se Gesù aveva davvero il potere di far tornare in vita i defunti, perché l’ha esercitato con tutta questa parsimonia? Il problema, amici, è che dobbiamo imparare a leggere la Scrittura - specialmente Giovanni! - andando oltre l’episodio raccontato, in modo da coglierne l’insegnamento teologico… Il Vangelo non è una sterile cronaca di fatti storici, ma una feconda narrazione di verità di fede che emergono da vicende emblematiche, simboliche, come quella descritta nel brano odierno. Un fatto di cronaca che si perde nella notte dei tempi non avrebbe più alcun interesse per noi… Un episodio-tipo da leggere teologicamente, invece, continua a parlare di Dio in modo attuale anche a noi uomini dei XXI secolo! Ebbene, amici, la vicenda di Lazzaro è l’escamotage giovanneo per trasmetterci la buona notizia portata dal Maestro: la morte non solo non interrompe la vita, ma è quell’elemento che le consente di fiorire nella sua forma più piena e definitiva, tanto completa che non è raggiungibile su questa terra… Il discepolo, colui che si siede alla scuola della misericordia senza confini retta da Gesù, raggiunge un livello di vita così elevato, così seriamente tendente al modello divino, che non potrà mai distruggersi: il Nazareno garantisce che “se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte” (Gv. VIII, 51), la quale sarà solo un passaggio di rinascita alla vita eterna.

Ebbene, l’amico Lazzaro sta male, muore, e quando Gesù arriva è già nel sepolcro. La reazione di Marta, una delle sorelle, alla vista del Signore, è di rimprovero (“se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!”); non solo, ma con le sue ulteriori parole (“qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà”) Marta dimostra di non avere ancora capito nulla del suo amico Nazareno che pure frequenta abitualmente (quale consolazione, per tutti noi cercatori!): per lei Gesù è inferiore a Dio, non ha compreso che in lui si manifesta la pienezza del Padre! Gesù le risponde “Tuo fratello risorgerà”, e lei risponde scocciata “So che risorgerà nell’ultimo giorno”… Marta crede unicamente alla risurrezione finale, che consola fino a un certo punto coloro che piangono la persona amata, ma il Signore sta per cambiarle radicalmente il concetto di morte e di vita che ha in testa; “io sono la resurrezione”, dice il Maestro, utilizzando significativamente un verbo al presente e non al futuro, ed aggiunge “chi crede in me, anche se muore, vivrà”: questo fatto che non si conoscerà mai la morte deve essere ben chiaro anche agli occhi di coloro che ad oggi sono vivi e vegeti, ed è proprio rivolgendosi a loro che Gesù conclude “chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno”! Siamo di fronte allo stravolgimento di tutte le credenze più diffuse circa l’esistenza umana, già all’epoca ed ancora oggi: il Signore non risuscita i morti, ma comunica a tutti noi, suoi figli, un livello di vita così alto, così improntato alla sua misericordia senza confini, che è incorruttibile e riesce a superare la morte; la vita eterna non è dunque una speranza da custodirsi gelosamente per il giorno finale, ma è una certezza per il presente di ciascuno, che in quanto figlio è reso partecipe dei livelli di vita intramontabile propri di Dio… “Credi questo?”, chiede Gesù ad un’attonita Marta. “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio”! Marta riconosce la divinità del Nazareno, ed è proprio a questo punto che la situazione comincia ad ingarbugliarsi…

L’evangelista sottolinea che “Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro”… Nel linguaggio biblico il villaggio rappresenta il luogo della tradizione religiosa autocratica e bastante a se stessa, dunque impermeabile alla novità bellissima portata dal Nazareno: in questo villaggio, in particolare, i Giudei stanno presentando il cordoglio funebre alle sorelle che hanno perduto Lazzaro, in un’atmosfera di assoluto sconforto per qualcuno che non c’è più e si è perso definitivamente. Il Signore vede che anche la piccola comunità dei suoi amici, costituita a questo punto dalle sole sorelle, non ha recepito le sue “parole di vita eterna” (Gv. VI, 68) e cede alla disperazione più totale… Neanche loro due avevano capito che il discepolo non vedrà mai la morte! Ecco perché “molto turbato, domandò: «Dove lo avete posto?»”… Il Maestro sta chiedendo loro che cosa ne hanno fatto, per capire come hanno (re)agito senza il conforto della fede: “vieni a vedere!”, gli rispondono, così come lui stesso aveva detto “venite e vedrete” ai primi cercatori di Dio che volevano sapere dove abitasse (Gv. I, 39); se in quel caso erano gli uomini a voler imparare qualcosa da Gesù, qui è come se il Signore fosse invitato dall’uomo a scoprire qualcosa di suo, della sua esistenza terrena, qualcosa che è sempre difficile da sopportare e che dunque è meglio condividere: è un’intuizione di Donpi (penso la leggerete più sotto…), ma è talmente bella che non posso non farla mia! In questo momento Dio, davanti alla salma del suo amico Lazzaro, per la prima volta sperimenta sulla propria pelle il dolore dell’uomo: e scoppia a sua volta in lacrime, ma con un pianto fatto di condivisione della sofferenza umana e non certo di disperazione; non è un caso, a ben vedere, che di qui a poco Gesù scenderà a Gerusalemme per mostrare la misura infinita del suo amore per tutta l’umanità condividendone pubblicamente le pene attraverso lo “spettacolo” (Lc. XXIII, 48) della passione e della croce: questo Maestro che piange dopo aver “imparato il dolore” sotto la guida dell’uomo e che dunque decide di farsene carico in prima persona, amici, è l’icona di un Dio bellissimo che non può non farvi innamorare nel profondo…

Dicevamo che Gesù piange perché condivide il nostro dolore e non certo per sconforto; ed infatti gestisce la situazione in modo piuttosto deciso, indirizzando alla sua piccola comunità (e dunque anche e soprattutto a noi Chiesa di oggi!) ben tre verbi imperativi: togliere, sciogliere e lasciare. Cominciamo dal “togliete la pietra”: il macigno tombale, che rappresenta la fine di tutto ancora nel nostro parlare odierno (“metterci una pietra sopra”), è un ostacolo disperante alla vera comprensione della morte che è stato messo lì dall’uomo, dunque va rimosso… Ma la comunità oppone resistenza proprio a chi vuole liberarla (“Manda già cattivo odore”), c’è sempre il rischio di affezionarsi alla sofferenza tanto da non volersene affrancare, e il Signore è costretto ancora una volta a chiedere ai suoi fiducia in lui (“Se crederai, vedrai la gloria di Dio”): questa “gloria di Dio”, capiremo fra poco, è la comunicazione all’uomo di una vita misericordiosa a livelli talmente alti da essere incorruttibile e dunque immune dalla morte. Alla fine, comunque, tolgono la pietra, e Gesù non dice, ma urla “Lazzaro, vieni fuori!”: il regno dei morti non è il posto del discepolo del Nazareno, perché chi lo ha seguito sul serio ha il suo Spirito di misericordia, e lo Spirito è vita, e dove c’è vita non c’è spazio per la morte! Ebbene, il Signore chiama Lazzaro, ed ecco invece uscire “il morto”, fra l’altro rifasciato come un salame (“i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario”)… Ma ve l’immaginate questa specie di zombie tutto bendato che zompetta fuori dal sepolcro?? È l’immagine di morte definitiva che pervade questa comunità ad aver legato ed imbavagliato lo spirito di Lazzaro, impedendogli di “librarsi in volo verso campi luminosi e sereni”, per dirla con Baudelaire… E questo vale non solo per Lazzaro, non si può parlare sotanto di lui, ma si estende a tutti i defunti di tutti i tempi. La comunità dei credenti, allora, deve cambiare la sua idea di morte come fine della persona, ed eccoci agli altri due imperativi di Gesù: “Liberàtelo e lasciàtelo andare”! Sciogliendo il defunto dai lacci della morte che noi stessi gli leghiamo addosso col nostro sconforto, comprendendo che se anche noi abbiamo sofferto il distacco lui non ha mai visto la morte, si libera l’intera comunità dalla paura del trapasso, che diventa un passaggio dalla vita terrena alla vita in pienezza: ce lo ricordassimo quando piangiamo sconsolati i nostri morti, quando sguazziamo nella disperazione, quando siamo così presuntuosi da pensare di potere o dovere fare qualcosa noi da quaggiù per loro che sono lassù… Liberiamoli, una buona volta, da questi vincoli di paura: oltre a dirci cristiani, cominciamo ad ascoltare il Signore sul serio!

E poi, favoloso ed attualissimo in questi tempi di testamento biologico e di grandi polemiche sul fine vita, il “lasciatelo andare”… Ma come Gesù, hai appena rianimato un cadavere davanti ai suoi parenti in lacrime, ed anziché proporre loro di rimanere un po’ insieme o magari di abbracciare quel fratello ritrovato, dici di lasciarlo andare? Si tratta di un grande insegnamento per tutti noi, che nella società altamente tecnologica di oggi siamo così morbosamente attaccati alla vita nostra e di chi ci è vicino (un po’ meno a quella di chi ci è più lontano…) che siamo disposti a tutto, perfino ad accanirci medicalmente contro ogni ragionevole speranza su un corpo ormai martoriato ed irrecuperabile, pur di non cedere alla morte biologica come un normale decorso di natura… è un grave peccato di superbia contro Dio questo di volere a tutti i costi protrarre la vita oltre i suoi confini naturali, spesso in condizioni così disumane da non poter nemmeno rispettare la dignità della persona, ma questo accanimento terapeutico è soprattutto il segnale di un’incommensurabile carenza di fede. Il credente sa che la morte non è che un passaggio alla vita in pienezza, sa che non è la fine di un bel niente, ed allora non si intestardirà oltre ogni logica nel prolungare artificiosamente una vita terrena arrivata ormai al capolinea, ma sarà in grado di “lasciar andare” serenamente il Lazzaro della situazione, consapevole che quello che è solo un morto agli occhi del mondo gioisce già nella pienezza misericordiosa del Padre, da vivente più che mai! Non affezionatevi alla sofferenza, amici, non solo nel fine vita, ma anche in tutto il resto dell’esistenza… Non affezionatevi neanche alla croce, che è sempre e solo una “collocazione provvisoria”, come scriveva quel birbante di Tonino Bello: domenica prossima mediteremo la passione del Signore, ma ricordiamoci che il gran finale sarà la sua risurrezione, la quale lo rende vivo ancora oggi e per sempre!

Buona settimana,
Matteo Moretti


È splendido, Dio.
Disseta l’anima, ridona luce alla nostra cecità.
La quaresima è il tempo in cui riscoprire l’essenziale della fede, entrando nel deserto delle nostre giornate ingombre di cose da fare. Un tempo per lasciare che l’anima ci raggiunga.
E oggi, alla fine di questo breve percorso, troviamo un vangelo da brividi, il racconto di un’amicizia travolta dalla morte e dalla disperazione.
È lì, a Betania, il piccolo villaggio che sorge sul monte degli ulivi, nel declivio opposto a quello che sovrasta Gerusalemme, che Gesù volentieri si rifugia, in casa di questi tre suoi coetanei, Lazzaro, Marta e Maria, per ritrovare un po’ del clima famigliare di casa.
Per fuggire dalla Gerusalemme che uccide i profeti.
Che bello pensare che anche Dio ha bisogno di una famiglia.
Che bello fare della nostra vita una piccola Betania!
E in questo contesto che avviene il dramma: Lazzaro si ammala e muore, e Gesù non c’è.
Come succede anche a noi, a volte, e davanti alla malattia e alla morte di una persona che amiamo, scopriamo che Gesù è distante.

Tragedie
La resurrezione di Lazzaro è posta poco prima della Passione di Gesù.
È l’ultimo e il più clamoroso dei segni, quello che determina la decisione, da parte del Sinedrio, della pericolosità di Gesù e la necessità di un suo immediato arresto, senza indugiare ulteriormente.
Come se Giovanni volesse dirci che la vita di Lazzaro determina la morte di Gesù.
Immagine di uno scambio che, da lì a poco, sarà per ogni uomo.
La vicenda di Lazzaro, allora, è la vicenda di ognuno di noi.
Gesù ci disseta.
Gesù ci dona luce.
Gesù dona la sua vita per me.

Strazio
Nello straordinario e complesso racconto giovanneo, esiste un passaggio che voglio sottolineare.
Quando Marta e Maria, sorelle di Lazzaro, abituate ad accogliere il Signore nella loro casa a Betania, sanno della presenza di Gesù, escono di casa, disperate, si affidano all’amico e Maestro.
Il racconto è un crescendo di emozioni, di testimonianze di fede delle sorelle, ma anche di umanissimo sconforto e pena.
Quando Gesù vede la disperazione delle sorelle e della folla, resta turbato, e scoppia in pianto.
All’inizio del vangelo a Giovanni e Andrea, discepoli del Battista, che, su indicazione del profeta, lo avevano seguito e gli chiedevano dove abitasse, Gesù aveva risposto “venite e vedrete” (Gv 1,39).
Ora è Gesù che si fa discepolo, che è invitato ad andare.
Come se, fino ad allora, non avesse visto fino in fondo quanto dolore provoca la morte.
Come se fino ad allora Dio non avesse ancora capito quanto male ci fa la morte, quanto sconforto porta con sé il lutto.
Come se Dio non sapesse.
Come se Dio imparasse cos’è il dolore.
Dio piange, davvero.
E quel pianto ci lascia interdetti.

Turbamenti
Quel pianto ci sconcerta, ci scuote, ci smuove.
Dio, ora, sa cos’è il dolore.
Fra poche ore andrà fino in fondo, portando su di sé tutto il dolore del mondo.
Dio e il dolore si incontrano. Non è bastato che Dio diventasse uomo per condividere con noi la vita. Ha voluto imparare a soffrire, per redimere ogni pena.
Ci basta?
Non lo so.
Davanti ad un Dio che condivide, non sempre il nostro cuore si convince, si converte.
Come coloro che vedono il pianto di Gesù.
Alcuni notano l’amore di Gesù per Lazzaro, la sua compassione.
Altri, cinicamente, obiettano: Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?
In queste parole abbiamo tutta la contraddizione dell’essere umano.
Preferiamo un Dio che condivide il nostro dolore o un Dio che ci evita il dolore?

(Paolo CURTAZ)

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